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L'OPINIONE: anni'70, per una memoria condivisa
Scritto da Fiorello Cortiana, pubblicato da Oliverio Gentile il 19-09-2008 alle 10:26
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Charta minuta, la rivista della Fondazione Farefuturo, di Gianfranco Fini, ha dedicato un numero alla riflessione e al confronto sugli anni '70, questo è il mio contributo.
 
               Anni’70, per una memoria condivisa
 

                                            Fiorello Cortiana

 

Spesso ripensando alle scelte e alle azioni compiute in gioventù si usa una misura di indulgenza che rivela non tanto la sindrome da reduci, quanto la nostalgia dell'età.

Prendere in considerazione un periodo cruciale come gli "anni '70", da parte di chi li ha attraversati, ha una utilità ed una attualità politica a condizione di metterne in gioco gli aspetti esistenziali, culturali, antropologici e relazionali.

Con questo sguardo, dopo una lunghissima adolescenza politica, è possibile che una parte significativa dell'attuale "mondo adulto" si disponga a riconoscere e  a considerare le inquietudini e i conflitti sociali e generazionali, che potrebbero emergere oggi, come ad un potenziale  contributo al processo democratico e non come una devianza, soggetta ad un ordine pubblico e terapeutico.

Riflettere oggi sugli "anni '70", quindi, richiede di andare oltre il succedersi stragista della "Strategia della Tensione" e la deviazione dei Servizi lungo la cortina di ferro che segnava le divisioni dell'Europa stabilite dalla Seconda Guerra Mondiale e mantenute per decenni dall'equilibrio del terrore atomico.

La scuola di massa e la definizione dello stato sociale avevano consentito alle generazioni del dopoguerra di non pensare, ad iniziare dalla minore età, a vivere per lavorare.

Al di là della mobilitazione contro la guerra nel Viet Nam come lotta contro la "guerra imperialista" degli States, il grande movimento generazionale che ha attraversato l'occidente voleva abbassare ed allargare la soglia di ingresso nella società del benessere diffuso e dei nuovi consumi.

Le modificazioni nei costumi e nei consumi, a partire dalla disponibilità di tempo libero dal lavoro, lo sviluppo creativo diffuso attraverso l'uso di diversi linguaggi espressivi, la musica su tutti, avevano ampliato a dismisura la sfera del consumo culturale prima riservata ad una elite sociale.

Questa aria nuova interessava anche altri giovani, operai che di tempo libero dal lavoro ne avevano ben poco e avevano conosciuto il processo di immigrazione ed inurbamento ad un tempo come disponibilità di un impiego e come restrizione degli spazi aperti delle campagne e dei paesi da cui provenivano.

Anche questi aspetti erano presenti nell'incontro tra studenti ed operai, avvenuto sì davanti alle fabbriche ma anche nelle attività sociali nei quartieri, dall'occupazione delle case, alla creazione di centri sociali e di scuole popolari piuttosto che ai concerti rock.

L'evidenza di una questione sociale aperta, si pensi allo Statuto dei Lavoratori approvato solo nel 1970, caratterizzava i conflitti sociali essenzialmente come conflitti redistributivi, mentre Yalta privava una giovane Repubblica della  possibilità dell'alternanza, così le classi dirigenti e le loro culture politiche vivevano all'interno di un dopoguerra irrisolto.

Gli attori principali del sistema politico/istituzionale repubblicano non riconoscevano e non consideravano i giovani come una realtà sociale ormai pienamente presente al di là del solo servizio militare. Così non riconoscevano e non consideravano il movimento studentesco e le inquietudini giovanili per la loro soggettività politica, altrettanto facevano i protagonisti dei movimenti nei confronti della democrazia e delle sue istituzioni.

 Una straordinaria disponibilità alla partecipazione, ben testimoniata dai giovani "angeli del fango" arrivati a Firenze dopo l'alluvione del 1966, venne così dissipata con una entropia sociale che produsse presto una schizofrenia politica.

Eppure l'emergere di una soggettività generazionale costituiva il migliore riconoscimento agli sforzi dei costituenti per la costruzione di uno stato sociale a fianco del boom economico.

 Aldo Moro, quasi unico, vide nel protagonismo studentesco uno dei segni profondi del cambiamento sociale e parlò allora di "tempi nuovi" invitando la politica ed i suoi protagonisti a capire le ansie dei giovani  e la loro domanda di giustizia, di libertà e di nuovi valori.

Dentro a questo contesto due limitazioni,legate tra loro, hanno contribuito alla riduzione di tanto protagonismo sociale e generazionale ad una questione di ordine pubblico e terapeutico con la tossicodipendenza diffusa.

La prima è legata  alla condizione bloccata della democrazia italiana che insieme alla "costrizione a governare" della DC e dei suoi alleati vedeva le forze politiche non abilitate a farlo non come opzione possibile da verificare attraverso l'alternanza elettorale, bensì come una alternativa assoluta ai limiti e alle difficoltà dei governi possibili e proprio per questo impedita.

In questo sistema bloccato, le nuove generazioni politiche dopo il '68 cercarono, quindi, di rivitalizzare le ideologie che trovavano in campo. Così invece di mettere in discussione il significato ed il senso dei sostantivi ci si affidava al maquillage prodotto dagli aggettivi con una impossibile risignificazione dei sostantivi "Sinistra Rivoluzionaria/Destra

Rivoluzionaria", "Nuova Destra/Nuova Sinistra", nonostante l'esperienza nazifascista, nonostante l'esperienza sovietica evidenziata dai carri armati a Budapest e dalla figura di Imre Nagy nel 1956 e ancora nel '68 con i carri armati a schiacciare la primavera di Dubcek  Praga, teatro del grido disperato di una identità nazionale attraverso il suicidio di Ian Palach.

La seconda limitazione ha connotato politicamente ed esistenzialmente i gruppi organizzati impegnati nei tentativi di risignificazione delle ideologie forti che avevano occupato il campo politico del novecento. La definizione dell'identità e della coesione di gruppo avvenivano attraverso una l'alterità assoluta di una cultura e di una pratica antagoniste “ho un nemico quindi sono”.

Così come gli attori principali ed ufficiali del sistema politico-istituzionale repubblicano non riconoscono e non considerano il movimento giovanile studentesco per la sua soggettività politica, altrettanto facevano i protagonisti dei movimenti nei confronti della democrazia e delle sue istituzioni.

Prendeva così corpo una schizofrenia sociale con un effetto di entropia politica. La condizione extraistituzionale come condizione equivalente alla pratica di illegalità sociale dentro una definizione identitaria di alterità assoluta ha prodotto una spirale etica ed estetica della violenza, continuamente alimentata non dalla cultura del martirio ma dalla celebrazione e dalla memoria dei martiri.

Rapidamente organizzarsi per difendersi si è tramutato in una organizzazione preventiva delle azioni violente di difesa, rapidamente l'organizzazione di questa violenza “difensiva” è diventata una pratica cui dedicarsi con continuità impegnando tempo ad affinare le pratiche e a preparare e custodire gli strumenti necessari. Rapidamente la relazione sociale con i quartieri è diventata un controllo ostentato del territorio con luoghi e locali divenuti presidi.

Non c'è da stupirsi se alcune migliaia di persone, da entrambe le parti, per coerenza tra i propositi e gli slogan rivoluzionari con le pratiche concrete, hanno scelto la lotta armata come pratica politica terrorista, organizzata o spontanea che fosse.

I terroristi non venivano da un altro mondo, c'era una schizofrenia di massa con una vita parallela con una sua concezione della giustizia ed il suo esercizio della forza. Con il suo uso parallelo dello spazio e del tempo e la costruzione e l'esercizio di altre ritualità e altre liturgie in rottura con quelle esistenti.

Se oggi devo spiegare a mio figlio adolescente la logica di quelle scelte di quelle modalità di vivere gli spazi ed impiegare il tempo, devo anche partire dalle esperienze odierne dei “branchi” con le loro relazioni gerarchiche e quel “dover essere” che porta ragazzi individualmente tranquilli ad esercitare violente pratiche in gruppo per non essere emarginati o, peggio, considerati oggetto di quelle pratiche.

Anche questo c'era dentro ad una spirale di violenza che impoveriva e mortificava coloro che erano al suo interno. Anche questo spiega i repentini pentimenti negoziati attraverso confessioni e chiamate in correità anche strumentali a fronte, al contrario, di processi sofferti, travagliati e rischiosi, di dissociazione dalle esperienze di violenza organizzata che hanno interessato tanti altri "militanti armati".

Alla luce  di questa deriva sociale e politica, con il suo carico di violenza e di lutti, è significativo che centinaia di migliaia di giovani, che pure vivevano a pieno in un mondo schizoide e parallelo, abbiano deliberatamente scelto di non percorrerla. Nel film "Lavorare stanca" Guido Chiesa descrive la consapevole rottura/discussione dei presupposti ideologici e antagonisti degli anni settanta attraverso i giorni di Bologna nel '77. Viene descritto l'assalto ad una armeria durante una manifestazione, ma tutte le armi sottratte vengono appese ai portici antistanti attraverso una ostensione/rifiuto di quelli che erano gli strumenti materiali con i quali si esercitava la pratica etica od estetica della violenza.

Strumenti che erano diventati veri e propri status symbol, a partire dalle chiavi inglesi Hazet 36 e dai coltelli, per arrivare alle pistole P38 e al loro richiamo con le tre dita sollevate.

 C'è stata una “meglio gioventù” che con discrezione ha bussato alla porta della società democratica e ci è entrata anche se nessuno è venuto ad aprir loro l'uscio.

Ma i terroristi non erano marziani e la rapidità della loro deriva e l'efferatezza delle loro pratiche non deve impedirci di rilevare che l'esasperazione dei loro comportamenti dentro a situazioni estreme trovava simili modalità relazionali dentro ad una intera generazione.

Il nostro Paese dopo la fine delle grandi narrazioni ideologiche del '900, ha conosciuto la disposizione personale ad una politica di responsabilità, o meno, come opzione dipendente dalla convenienza della propria collocazione in quel momento.

In mancanza di inclusione e di responsabilizzazione il protagonismo di quegli anni si è connotato per narcisismo e scelte strumentali “un tanto al Kilo”. La risposta ad un disadattamento sociale e politico è stata spesso l'adattamento più strumentale nel quale impegnare la propria intelligenza ed il proprio talento, rendendo così vane e vacue le idealità e le inquietudini che pure avevano scosso e stimolato un intero continente.

Questo fallimento esistenziale di una generazione è una delle spiegazioni dell'omogeneizzazione al ribasso della qualità della classe politica e del “mondo adulto” più in generale.  Una condizione solo esaltata dall'attuale legge elettorale.

Proprio la derubricazione a fattore estensivo del mercato dei consumi dei movimenti giovanili degli anni '70 e delle loro inquietudini sociali, ha prodotto una condizione di eterna adolescenza deresponsabilizzata, alla ricerca di scorciatoie e supporti invece di percorrere l'esperienza di vivere per intero con consapevolezza. Sia stata l'eroina per fuggire, la cocaina per strafare, il doping per la prestazione sportiva, il viagra per quella sessuale o il lifting per quella estetica.

E' come se l'impossibilità di divenire soggetti esercitanti responsabilità si fosse involuta nel rifiuto di costituire il mondo adulto nel proprio Paese e nelle proprie famiglie.

Insieme alla disponibilità e alla curiosità verso “l'altro da sé”, quindi all'ascolto, alla comprensione ed al dialogo, dentro una reciprocità ben descritta dal Cardinal  Martini con la definizione "Ogni uomo è mio fratello", l'altro elemento da considerare affinché non si ripetano le derive degli anni '70 è la costruzione di processi sociali, politici e normativi aperti ed inclusivi.

Questi due elementi dovrebbero costituire la comune preoccupazione della nostra comunità sociale e politica il resto rischia di essere solo esorcismo o retorica mentre le tragedie si possono ripetere, caricaturali o meno, con il loro portato di dolore, lutti e spreco di energie per l'innovazione culturale, sociale e politica . Un processo di definizione di una memoria condivisa, capace di coinvolgere tutti coloro che hanno vissuto le premesse o l’intera deriva degli anni’70, accompagnato dalle possibili indulgenze giudiziarie, sarebbe di grande aiuto, non solo nell’elaborazione di quel periodo, ma come memoria viva e monito utile alle nuove generazioni.

 

                                                             


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