Mi sembra giusto ricordare una delle feste più antiche di Milano,
che i media e le nostre istituzioni hanno ormai dimenticato.
Una festa risalente a duemila anni fa, che dovrebbe far riflettere chi
vuole stravolgere l'essenza della nostra città cementificandola ed
appiattendola su modelli che non appartengono alla sua millenaria cultura.
Allego due brevi storie de "El tredesin de Marz" ed un'immagine della
famosa "ruota di San Barnaba" che si può ancora ammirare nella Chiesa di
Santa Maria del Paradiso.
Buona settimana!
Massimo
"E quî giornad del tredesin de Marz ?
Gh'era la fera, longa longhera, giò fina al dazi, coi banchitt de vioeur,
de girani, coi primm roeus, e tra el guardà, l'usmà, el toccà,
se vegneva via col coeur come on giardin, pensand al bell faccin de
Carolina che sotta al cappellin a la Pmela e col rosin sul sen
la pareva anca lee la primavera".
(Emilio de Marchi)
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Originale interpretazione storica di una leggenda
popolare molto nota a Milano
Tredesin de Marz in onore di Bruto
di Giorgio Fumagalli
Secondo una leggenda, il 13 marzo dell'anno 51 San Barnaba predicò il
vangelo di Cristo in una radura poco fuori Milano: una località dove era
ancora viva la tradizione celtica. Egli innalzò la croce, sopra una rozza
pietra rotonda: il Tredesin de Marz, che ancora è venerata in una chiesa
di Milano.
L'immagine dell'Apostolo che con tanta facilità raduna nel bosco una
moltitudine di persone è affascinante; ma sarebbe più logico pensare che
quella gente già si fosse fissata un appuntamento presso il Tredesin:
forse per un altro motivo.
Gli studiosi hanno formulato le più svariate ipotesi, legate al
significato simbolico del numero tredici, uguale a quello dei raggi incisi
sulla pietra; nessuno ha cercato di scorgervi un collegamento, connesso a
un fatto concreto.
I Celti celebravano "i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni".
Lo sappiamo perché i Galati furono rimproverati, per questa ragione, da
San Paolo, amico di Barnaba.
Le ricorrenze annuali erano evidenziate con particolare solennità,
talvolta con un triduo di festeggiamenti.
Cosa avevano di bello, da ricordare i Celti, in quella data?
Di bello proprio niente; ma c'era un fatto, avvenuto cent'anni prima, che
non poteva essere dimenticato, un dramma che li coinvolgeva da vicino.
Si era verificato a Roma, dove il più grande nemico dei Celti aveva pagato
con la vita i suoi misfatti; a causa della sua ambizione, un milione di
loro connazionali erano morti, nel corso della guerra gallica.
Il capo dei congiurati che uccisero Cesare era ben noto e stimato dai
milanesi, che addirittura gli eressero nel foro una statua.
Se i cittadini entro le mura romane non seppero dimenticare le idi di
marzo,
perché avrebbero dovuto farlo i Galli dei sobborghi?
L'eco del tirannicidio durò a lungo nel tempo, soprattutto grazie alla
circolazione delle monete fatte coniare da Bruto.
Sul diritto riportavano la scritta "Libertas", con l'effigie dalla
libertà: nulla di più caro ai Celti.
Sul retro, accanto al berretto frigio e a un pugnale, la scritta:
"Idi di marzo", una data assunta a simbolo, come poche altre.
I Celti non avevano nozione delle idi; per loro, quel giorno era
semplicemente il quindicesimo del mese di marzo: il triduo di
festeggiamenti sarebbe quindi iniziato due giorni prima, il 13, proprio la
data dell'arrivo di Barnaba.
Non tutti i convenuti probabilmente erano ben disposti; forse taluni
covavano vecchi rancori.
In questo contesto, il discorso dell'Apostolo trova ampia giustificazione:
il Vangelo di Cristo, la Buona Novella, è la miglior premessa per ogni
riconciliazione.
Mentre questi fatti avvenivano poco fuori Porta Orientale, nel foro di
Mediolanum doveva essere ancora in piedi la statua di Bruto.
Certamente il monumento non era stato rimosso neppure ai tempi d'Augusto:
Plutarco ci racconta, infatti, un curioso aneddoto.
"Augusto, di passaggio per Milano - scrive Plutarco - rimproverò
burberamente alle autorità locali di dare asilo a un suo nemico; i
magistrati rimasero interdetti e allora Augusto indicò loro la statua di
Bruto, che si trovava ancora in mezzo alla città. Di fronte al loro
silenzio e al loro imbarazzo, egli sorrise e li lodò per la fedeltà che
mostravano a un loro amico, anche nelle avversità e dette ordine che la
statua rimanesse dove era".
Non dobbiamo però credere che fosse agevole manifestare dissenso nei
confronti
del centralismo romano e ben se ne avvide - a sue spese - il retore
Albucio quando,
difendendo una causa a Milano, aveva invocato Bruto come campione della
libertà.
Sta di fatto che Bruto godette di notevole celebrità, a Milano; nell'anno
46 a. C. era
stato nominato, proprio da Giulio Cesare, governatore per la Gallia
Cisalpina,
e questa nomina fu una grande fortuna per la provincia.
Infatti, mentre le altre venivano spogliate come se fossero territori di
conquista dai governatori insolenti e rapaci cui furono affidate, Bruto
costituì per i suoi amministrati un riposo e un conforto, dopo le
disavventure precedentemente subite. Marco Bruto rientrò a Roma e nel 44,
insieme a circa novanta persone progettò l'assassinio di Cesare.
L'attentato ebbe luogo il 15 marzo dello stesso anno, nel portico del
teatro di Pompeo. Il senato di Milano salutò l'evento erigendo nel foro la
statua bronzea della quale abbiamo detto: non sappiamo esattamente dove
fosse ubicata, ma ci sono buone ragioni per ritenere che si trovasse
vicino alla zecca, che era prospiciente alla piazza, anche perché Bruto
doveva avere un certo interesse per la monetazione, della quale si era
direttamente interessato. Se grande era il suo amore per la libertà,
quello per il danaro era addirittura un attaccamento morboso: infatti,
come banchiere mostrava uno zelo talvolta eccessivo nel recupero dei
crediti. A Roma questo suo atteggiamento gli alienava simpatie, assieme al
fatto che - come avvocato - assumeva spesso il ruolo di accusatore, con
successi fin troppo scontati.
Molti secoli più tardi, agli inizi del Settecento, Bruto ebbe un'altra
statua a Milano: un riadattamento di una preesistente, ma con tanto di
pugnale in mano; per un paio d'anni rimase in piazza Mercanti, proprio
davanti al Broletto nuovo. Sopra uno dei pilastri di questo palazzo si può
scorgere un piccolo altorilievo consumato, rinvenuto in sito dai
costruttori nel 1233.
Rappresenta una sorta di cinghiale, detto "scrofa mediolanacea"
ossia lanuta per metà, forse per un'omofonia popolare col
nome di Milano.
Questa figura è legata alle origini della città, in quanto il cinghiale
aveva un ruolo importante nella simbologia celtica.
Questi palazzi duecenteschi costituivano il nuovo polo laico e
commerciale, non lontano dal sito dove c'era stato il foro.
Le testimonianze archeologiche di questo luogo sono fra le più antiche
della città di Milano: risalgono all'inizio del quinto secolo a. C.; la
loro tipologia ci conferma l'esistenza di un aggregato protourbano, aperto
ai commerci. Il rinvenimento di resti d'edifici, su due diversi livelli
attesta che l'area fu frequentata a lungo in età preromana.
Probabilmente qui si trovava la zecca celtica, che continuò a produrre le
monete insubri almeno fino al terzo secolo a. C.: certamente qui era
ubicata quella che riprese a coniare in età romana.
Questo nucleo abitato era contiguo al recinto sacro celtico e forse non è
un caso che i Romani abbiano costruito vicino ad esso la Curia (ossia il
Consiglio coloniale) e il Tempio Capitolino, quasi per imporsi sui simboli
della cultura celtica. Del foro sono rimasti solo il pavimento di alcune
botteghe attorno ad esso e numerosi lastroni di marmo rosso di Verona.
Sono visibili nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana e nella cripta
della vicina chiesa; altre lastre erano state utilizzate per la
costruzione dell'antica chiesa di Santa Maria alla Moneta, nella vicina
via Zecca Vecchia.
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El Tredesin de Marz
di Nònno Angiol Martinell
Veniva dall'Oriente, era alto di statura, di bell'aspetto, con una chioma
fluente. Era arrivato a Milano, stanco ed impolverato, il 13 marzo
dell'anno 52 dopo Cristo.
Con il suo magro bagaglio - una sacca a tracolla, una scodella per
attingere l'acqua alle sorgenti, ed un bastone nodoso su cui era
allacciata di traverso un'altra canna, a formare una rozza croce-si fermò
nelle boscaglie al di fuori di porta Orientale, pronto per iniziare la sua
missione.
Il suo vero nome era Giuseppe, ma tutti lo conoscevano come Barnaba,
"figlio della consolazione". Aveva preso il posto dell'apostolo traditore
Giuda, ed era partito per diffondere il cristianesimo nei paesi al di qua
del mare.
Nel punto in cui si fermò a riposare-il punto più elevato della
boscaglia-Barnaba fece i primi proseliti, all'ombra della croce di legno
che aveva infisso in una grossa pietra. Il predicatore, infatti, non osava
entrare in città: passare da porta Orientale significava essere obbligati
a sacrificare alle statue di dei pagani che troneggiavano agli ingressi di
Milano.
Solo dopo diverso tempo-ed era una bella giornata di prima
estate-l'apostolo raccolse in corteo i milanesi da lui convertiti e,
impugnando la croce, decise di fare un giro intorno alle mura della città.
Al suo passaggio, tutte le statue pagane caddero in pezzi: e non ne rimase
in piedi nemmeno una.
Fu così che l'uomo venuto dall'Oriente riuscì ad entrare a Milano,
fermandosi poi a porta Ticinese per celebrare i primi battesimi e
continuare la sua predicazione.
Ma a Milano non si fermò a lungo: forse già l'anno dopo lasciò la città,
dopo aver consacrato il primo vescovo, il greco Anatalone. Lasciò però ai
milanesi, come pegno di fede, la sua croce di legno infissa nella pietra.
Sul posto in cui Barnaba celebrò la prima messa (con i primi battesimi)
sorse poi la chiesa di Sant'Eustorgio. E proprio qui, a ricordare il primo
predicatore cristiano della città, si fermano ancora oggi gli Arcivescovi
quando fanno il loro ingresso a Milano, per assumere l'incarico della
diocesi.
Ed a ricordare l'arrivo di Barnaba in città, per secoli si tenne una
bellissima festa, detta del "Tredesin de Marz", che alle funzioni
religiose affiancava una speciale fiera di fiori ed un mercato di
dolciumi.
Oggi il "Tredesin de Marz" è diventata solo una fiera mercato
..........pussee che 'na fera l'è on gasaghee pien de carabattol e cialad e
de
to fiàa a la
gran pazienza de....Milan, che se fudessum minga tacàa al Navili par de
vess in del lòg in doe giren i camei,(cammelli)..... vha bhe TIREMM
INNANZ!
(sperem che se offerderà nissun, ma semper sta schisch l'è nò
giusta però).
Ma a testimoniare l'arrivo di Barnaba a Milano c'è ancora la pietra in cui
l'apostolo infisse la croce, che porta incise tredici tacche
ad indicare il giorno in cui l'Apostolo giunse a porta Orientale.
È custodita, dopo vari traslochi, nella chiesa di Santa Maria del Paradiso,
a porta Vigentina.
Della croce, invece, i secoli, inclementi ed iconoclasti, hanno cancellato
ogni traccia.
Autore della foto (Preti Gianluca - Celtegh Medhelan)
Tratta dal sito:
www.pretigianluca.com